Nel saggio del 1939 “Gli aspetti psicologici della Grande Madre” Jung descrive, in modo succinto ma sostanziale, il proprio punto di vista riguardo al concetto di archetipo mettendo in luce come già a partire da Platone fosse stato possibile pensare ad un’Idea preesistente e indipendente dalla realtà fenomenica.
Il fatto stesso che nei testi sacri dei primi secoli dopo Cristo Dio venisse definito come “luce archetipica” permette a Jung di mettere in evidenza la difficoltà insita nella trattazione di questo argomento che, considerato nelle sue valenze metafisiche, rischierebbe di rendere impossibile l’oggettività di un’indagine analitica. Allo stesso modo, dichiarandosi empirista, Jung ravvisa l’importanza di un atteggiamento critico nei confronti della tendenza del tempo volta a rintracciare nell’Idea la conseguenza dell’osservazione diretta del dato concreto. Ad esso dunque, secondo Jung, è consigliabile che non seguano categorie relative ad un dato considerato come oggettivo al fine di non parcellizzare e segmentare la realtà mettendone in luce unicamente gli aspetti concreti e oggettivamente verificabili. Le categorie kantiane citate da Jung, se da una parte hanno soffocato inevitabilmente ogni aspetto metafisico, dall’altra hanno consentito di mettere in evidenza l’importanza di un’indagine del mondo attraverso una struttura a priori di conoscenza. Il pensiero, la ragione, l’intelletto sono infatti sottomesse alle leggi della logica ma sono anche e inevitabilmente “funzioni psichiche coordinate e subordinate alla personalità”. Per Jung non si tratta dunque di un indagine sulla Cosa in sé quanto di una presa di coscienza attraverso cui riconoscere che la realtà è percepita soggettivamente attraverso funzioni psichiche non predeterminate e soggettivamente esperite. (altro…)